La lezione manzoniana e la riforma Nordio: diritto debole se chi giudica non risponde

Dopo la separazione delle carriere, la responsabilità dei magistrati. Non è questione di punizione ma di equilibrio: nessun potere è credibile se non è anche responsabile

di Sandro Scoppa*

Tra gli episodi più celebri dei Promessi sposi, l’incontro tra Renzo Tramaglino e il dottore di Lecco — il cosiddetto Azzecca-garbugli — è una delle pagine più acute con cui Alessandro Manzoni denuncia la distanza fra legge e giustizia.

Tutto nasce da un consiglio materno. Dopo aver ascoltato il racconto della persecuzione di don Rodrigo, Agnese suggerisce al futuro genero: «Fate a mio modo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli […] Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa a pensarci un anno». E, come dono d’uso, gli affida «quei quattro capponi, poveretti, a cui dovevo tirare il collo per il banchetto di domenica».

Renzo parte con fiducia e, giunto a destinazione, entra nello studio del legale, che l’autore descrive come «uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride». L’Azzecca-garbugli lo accoglie «umanamente, con un “venite, figliuolo”», indossando «una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare ne’ giorni d’apparato». È un’immagine densa di significato: l’abito, logoro come la giustizia che rappresenta, allude a un sapere che si è fatto forma, non sostanza.

Il giovane filatore, ingenuo e fiducioso nella legge, espone il suo caso: vuole sapere se minacciare un curato perché non celebri un matrimonio sia punito. Ma il dottore capisce tutto al contrario, lo crede un complice dei bravi e, dopo avergli letto con solennità una grida del 1627, si compiace della propria scienza. Quando però il suo interlocutore pronuncia il nome di don Rodrigo, l’avvocato «aggrottò le ciglia, aggrinzò il naso rosso e storse la bocca: “Eh via! che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Andate, andate: io non m’impiccio con ragazzi!”». Lo caccia via, ordinando alla serva di restituire i capponi, che la donna consegna «con un’occhiata di compassione sprezzante».

È un gesto emblematico: la norma vale finché non tocca i potenti. La bilancia si piega, il diritto si dissolve. In quella scena, che unisce ironia e amarezza, Manzoni ritrae un meccanismo eterno: una giustizia che parla difficile per non essere capita, che si difende dietro la forma e perde la sostanza. Il diritto, da linguaggio comune, diventa così un dialetto per pochi.

Non è quindi solo un episodio secentesco: è un paradigma universale. Lo scrittore lombardo mette a nudo la sudditanza del sapere al potere, la paura che si traveste da prudenza e la convenienza che si maschera da legge. Renzo, montanaro ingenuo, respinto e confuso, lascia quella casa con la delusione di chi ha creduto nella giustizia e ha trovato solo timore e interessi. È la scoperta — oggi attualissima — che il torto non si ferma ai confini dell’illegalità, ma abita spesso nei luoghi che dovrebbero impedirlo.

Ed è proprio qui che la lezione del grande narratore dell’Ottocento conserva tutta la sua forza. La distanza tra legge e giustizia che Manzoni raccontava nelle valli lombarde non è scomparsa: ha solo cambiato volto. Le corti, oggi come allora, appaiono spesso più preoccupate di difendere sé stesse che di servire i cittadini. La responsabilità civile dei magistrati, pur prevista, resta un’eccezione: il cittadino paga gli errori, ma chi li commette raramente ne risponde. Non è questione di punizione, bensì di equilibrio: nessun potere può essere credibile se non è anche responsabile. Una giustizia che non risponde dei propri errori diventa un potere sovrano, e dove il potere è sovrano il diritto si svuota.

Proprio per superare siffatta asimmetria è intervenuto il legislatore, apprestando una riforma costituzionale della giustizia, voluta dal ministro Carlo Nordio. Con il voto definitivo del Parlamento essa è stata approvata ed è ormai divenuta realtà. Il nuovo testo introduce la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, istituisce un’Alta Corte disciplinare autonoma e prevede due distinti Consigli superiori della magistratura. Si tratta di un passo significativo sul piano istituzionale, ma non ancora risolutivo. La divisione delle carriere o la creazione di nuovi organi non bastano, da sole, a garantire imparzialità se non muta il principio da cui tutto dipende: chi esercita un potere deve rispondere delle proprie decisioni. In mancanza di tale condizione, ogni riforma resta un restauro architettonico di un edificio che continua a poggiare sull’irresponsabilità di chi giudica.

Il male che Manzoni denunciava non era solo morale, ma strutturale. La sua critica, rivolta a un sistema che si piega ai potenti e dimentica i deboli, resta viva anche oggi. Nonostante le riforme, la giustizia tende ancora ad autoalimentarsi, a costruire sé stessa come apparato separato e autoreferenziale. Le norme si moltiplicano, le interpretazioni si sovrappongono, e l’individuo finisce schiacciato dal peso delle procedure. È il medesimo ingranaggio che l’autore dei Promessi sposi descriveva con ironia: un meccanismo che confonde il diritto con il regolamento e la responsabilità con il formalismo.

Nel capitolo XII, il sarto di Milano — l’uomo semplice e ragionevole che accoglie Renzo durante la fuga — pronuncia una frase che vale come monito eterno: «Il guaio non è che ci siano delle leggi; il guaio è che ce ne sono troppe, e che nessuno le osserva». È una riflessione di straordinaria attualità: troppa norma genera incertezza, troppa discrezionalità produce paura. L’eccesso di legge finisce per annullare la certezza del diritto e consegnare la vita delle persone alla volontà di chi giudica.

Quando la legge perde la misura, la libertà si indebolisce. Il cittadino non dovrebbe chiedere grazia, ma pretendere giustizia; non invocare clemenza, bensì chiarezza. Una società civile ha bisogno di regole sobrie e prevedibili: una norma limpida avvicina il potere al cittadino, un errore riconosciuto rafforza la fiducia nelle istituzioni. Al contrario, rinvii, abusi impuniti e sentenze ingiuste incrinano il patto civile su cui si regge la convivenza.

La lentezza della giustizia impoverisce la proprietà, l’incertezza spegne l’iniziativa, il timore trasforma la legge in minaccia. Il diritto nasce per limitare, non per dominare: tutte le volte che oltrepassa questo confine, torna a essere l’arma dei forti contro i deboli.

Il senso autentico del diritto è l’opposto: contenere chi comanda, non disciplinare chi obbedisce. Finché questo principio non sarà riconosciuto, l’Italia resterà sospesa tra le sue carte e i suoi silenzi, prigioniera di un Seicento morale che neppure la riforma più ambiziosa potrà da sola superare. Solo nel momento in cui chi amministra la giustizia saprà rispondere come ogni altro cittadino, e la legge tornerà a essere barriera e non strumento, potremo dire di aver restituito dignità al diritto.

Allora nessuno avrà più bisogno di bussare alla porta di un dottore per chiedere ascolto: basterà la certezza che la legge, finalmente, vale per tutti.

* Pubblicato su Atlantico Quotidiano

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