L’uso della statistica come strumento di potere durante il Covid
Errori di metodo, opacità, omissioni. Tutto in uno studio dell’Università di Firenze. La pandemia ha rivelato una nuova forma di dominio, quello esercitato attraverso la manipolazione dei dati statistici
di Sandro Scoppa
La pandemia ha lasciato dietro di sé non soltanto vittime, paure e cicatrici economiche, ma anche una questione più sottile: quella della verità. In particolare, della verità statistica.
Il working paper pubblicato dal Dipartimento di Statistica dell’Università di Firenze, intitolato: “L’informazione statistica sui vaccini anti-Covid-19. Il caso Italia tra errori, mistificazioni e omissioni”, per esaminare «l’informazione statistica sui vaccini anti-COVID-19 divulgata in Italia dai soggetti istituzionali, mettendo in luce errori di varia entità e gravità», offre uno sguardo severo su un tema decisivo: l’uso pubblico dei numeri e la loro influenza sulle decisioni collettive.
La statistica, nata per comprendere i fenomeni e ridurre l’incertezza, è divenuta durante la crisi sanitaria uno strumento di potere. Come si legge nello studio appena citato, «l’informazione sulla pandemia di COVID-19 in Italia si è basata su un abbondantissimo uso di dati statistici, per la maggior parte prodotti da enti pubblici (ISS, ISTAT, AIFA) e poi divulgati e commentati per il grande pubblico dai vari organi di stampa». Tuttavia, «una parte rilevante dei dati volti a quantificare l’impatto del COVID-19 e, più tardi, l’efficacia e la sicurezza dei relativi vaccini, è stata viziata da gravi errori di metodo, nonché da ambiguità e mancanza di chiarezza. In taluni casi, poi, si è omesso di far conoscere dati di fondamentale importanza ai fini di certe valutazioni, mentre in altri si è assistito a un utilizzo platealmente fuorviante dei dati stessi». Sebbene gran parte di siffatta cattiva comunicazione abbia riguardato gli organi di stampa, «le responsabilità più gravi sono probabilmente da attribuire ai soggetti istituzionali preposti alla produzione e divulgazione dei dati sanitari». Ciò non implica necessariamente un disegno occulto, riflette piuttosto una tendenza culturale profonda: la convinzione che la verità coincida con l’utilità politica del momento, e che la scienza debba servire il potere anziché il sapere. In questo modo, la scienza è stata usata non per interrogare, bensì per giustificare. Le statistiche ufficiali, presentate come certezze indiscutibili, hanno fornito il linguaggio di un nuovo paternalismo pubblico. Non più la forza del ragionamento, quanto l’autorità del numero ha reso legittimo il comando. Eppure, la storia insegna che la conoscenza imposta dall’alto non illumina, acceca.
Dietro le tabelle e i grafici c’era la visione di un cittadino incapace di scegliere da sé. Le politiche fondate sul “green pass” non si sono basate su una valutazione neutrale del rischio, bensì sull’idea che l’individuo dovesse essere guidato “per il suo bene”. Così, una misura sanitaria si è trasformata in uno strumento di discriminazione, che ha diviso la società tra “responsabili” e “pericolosi”.
Il problema comunque non è soltanto tecnico. È etico e politico. In una società aperta e libera, la trasparenza dell’informazione è condizione di ogni consenso consapevole. Se lo Stato seleziona o interpreta i dati in modo da indirizzare il comportamento degli individui, esso si pone non come garante della libertà, ma come suo tutore, come sottolineato testualmente nel paper: «le responsabilità più gravi sono probabilmente da attribuire ai soggetti istituzionali preposti alla produzione e divulgazione dei dati sanitari». E quando la tutela si fa costrizione, la libertà smette di essere un diritto e diventa concessione.
L’opera del gruppo fiorentino non si limita a elencare errori: sollecita anche un cambiamento culturale, l’idea che pure nella scienza pubblica occorra la stessa pluralità che si richiede nella politica. Non esistono dati “neutri”, ma soltanto metodi trasparenti, verificabili, sottoposti al confronto. Come si legge nello studio indicato, «l’intento di questo lavoro non è mettere in discussione l’utilità generale delle campagne vaccinali, ma richiamare l’attenzione sulla necessità di rigore metodologico, chiarezza informativa e integrità comunicativa nell’ambito delle decisioni di salute pubblica». Pretendere che la statistica diventi un oracolo equivale a rinunciare alla ragione critica. In proposito, gli autori dello studio sottolineano che la riflessione va oltre il piano tecnico: tocca la responsabilità civile della conoscenza e il rapporto tra scienza e potere. La scienza, come la libertà, ha senso solo se può essere discussa, verificata, criticata.
Ed è proprio in questa prospettiva che il citato Working Paper trova il suo valore più autentico. In chiusura si legge, infatti, che «l’intento di questo lavoro non è mettere in discussione l’utilità generale delle campagne vaccinali, ma richiamare l’attenzione sulla necessità di rigore metodologico, chiarezza informativa e integrità comunicativa nell’ambito delle decisioni di salute pubblica». E ancora: «come ricercatori e cittadini siamo convinti che gli enti pubblici deputati alla raccolta, elaborazione e divulgazione dei dati sanitari costituiscano un elemento importante a tutela della salute e del benessere della comunità. Proprio per questo ci sembra opportuno che errori gravi e ripetuti come quelli qui discussi siano portati alla luce, nella speranza che ciò stimoli quegli stessi enti a operare sempre in modo scientificamente corretto e trasparente, così da evitare problemi simili in futuro».
Una conclusione che restituisce senso e misura alla discussione: non la negazione della scienza, ma la difesa della sua libertà, condizione essenziale perché la conoscenza resti al servizio dell’uomo e non del potere.
La lezione che la pandemia lascia alla nostra civiltà è dunque duplice. Da un lato, la necessità di una scienza indipendente, capace di dire la verità anche quando è scomoda. Dall’altro, l’urgenza di ricordare che la libertà non è un premio per chi obbedisce, ma la condizione per comprendere la realtà. Perché la verità non appartiene allo Stato, ma all’uomo che ha il coraggio di cercarla.
- Articolo pubblicato da Atlantico Quotidiano
