Caro-affitti: quando la libertà è ostacolata, la scarsità aumenta

L’abitare è diventato un pretesto per un nuovo centralismo morale. L’esperienza dei canoni concordati ricorda che solo la fiducia nel mercato può restituire equilibrio e nuove opportunità abitative

di Sandro Scoppa*

Da ultimo, a Ravenna — ma è accaduto anche in altre città italiane — l’accordo territoriale sui canoni concordati è diventato l’ennesimo terreno di conflitto tra associazioni di proprietari e sindacati degli inquilini. Si parla di un testo sbilanciato, di trattative opache, di fasce di prezzo troppo generose o troppo ristrette. Ebbene, dietro la disputa di categoria si cela in sostanza un nodo più profondo: il principio stesso su cui si fonda il sistema. Il canone “concordato” non è un compromesso virtuoso fra libertà e giustizia, bensì una finzione di mercato. È l’idea, tanto antica quanto dannosa, che lo Stato — e, in questo caso, le organizzazioni sindacali per effetto di una previsione legislativa — possano decidere quanto debba valere un bene privato.

In teoria, la concertazione fra le parti sociali dovrebbe garantire equilibrio. In realtà, l’accordo territoriale è un atto sindacale, frutto della libera contrattazione tra le organizzazioni della proprietà immobiliare e quelle dell’inquilinato. I Comuni non vi partecipano, non lo approvano e non possono modificarlo: la legge assegna loro unicamente il compito di pubblicarlo e di assicurarne la dovuta diffusione. Tutto il resto è una distorsione. Scambiare un’intesa privata per un provvedimento pubblico significa travisare la natura stessa dell’istituto e negare la libertà contrattuale su cui si fonda.

Questo meccanismo, apparentemente tecnico, nasconde nondimeno un’idea di fondo: che la proprietà privata sia una concessione, non un diritto; che il cittadino non possa determinare da sé il valore di ciò che possiede; che l’incontro tra domanda e offerta debba essere mediato da chi presume di sapere cosa sia “giusto”. È il medesimo paternalismo che domina in molti settori, e in quello locativo più che altrove: lo stesso che, nel secolo scorso, giustificò l’equo canone, congelando gli affitti, bloccando gli investimenti e impoverendo il patrimonio edilizio. Allora si invocava la tutela dei più deboli e il risultato fu la fuga dei capitali, il degrado urbano, la riduzione dell’offerta di abitazioni — effetti che si ripresentano ogni volta che si tenta di sostituire il mercato con la pianificazione.

Di fronte a ciò, pochi hanno fatto tesoro dei lucidi insegnamenti di Luigi Einaudi, che ha scritto:
«In un mercato libero nessuno fa quel che vuole, né i produttori, né i consumatori. Il governo aumenta l’imposta sulle case? Tutti dicono: i proprietari non soffrono nulla, bastando ad essi aumentare i fitti. Errore. I proprietari desiderano sì aumentare i fitti; ma se l’avessero potuto fare li avrebbero aumentati senza aspettare lo stimolo dell’accresciuta imposta. Se non l’avevano fatto, ciò era accaduto perché gli inquilini non si possono prendere per il collo. Se i fitti aumentano, ci si restringe in appartamenti di un numero di stanze minore; si rinuncia a certe comodità; si va a vivere nei sobborghi. Vengono fuori alloggi sfitti; e se si vogliono affittare, i proprietari devono pure decidersi ad abbassare i canoni di locazione. […] I proprietari non possono fare quel che vogliono. Devono ubbidire al mercato».

Parole scritte oltre settant’anni fa, ma di un’attualità sorprendente. Il mercato immobiliare continua a rispondere alle stesse leggi di sempre: quando la libertà è ostacolata, la scarsità aumenta. Chiunque osservi con occhio attento — e libero da pregiudizi ideologici o da spinte corporative — il mercato immobiliare sa che la scarsità non nasce dalla libertà, ma dai divieti. Quando il proprietario è dissuaso dall’affittare o dall’investire, le case restano vuote, i quartieri si spengono, gli affitti salgono. Il cosiddetto “equilibrio sociale” che lo Stato persegue con i suoi accordi produce l’effetto contrario: i costi aumentano, la qualità cala, le disuguaglianze si amplificano. È la legge elementare dell’economia che ogni pianificazione ignora: non si può fissare un prezzo senza alterare il comportamento di chi produce e di chi consuma.

Eppure, di fronte a siffatte evidenze, c’è ancora chi difende il sistema, cercando di presentarlo come un compromesso virtuoso. I sostenitori degli “accordi territoriali” lo hanno addirittura definito una “liberalizzazione controllata”: un ossimoro che rivela tutta la confusione concettuale del modello. Se è liberalizzazione, non può essere controllata; se è controllata, non è liberalizzazione. Il mercato, per essere tale, non tollera aggettivi: o è libero, o è amministrato.

Dietro la vicenda ravennate si intravede quindi un principio generale. L’interventismo si rinnova, cambia linguaggio, si presenta come dialogo e partecipazione, ma conserva la stessa sostanza: il dominio della norma sul contratto, della burocrazia sulla volontà privata. Ogni volta che si parla di “tavoli”, “accordi” o “fasce”, si sta semplicemente dissimulando la volontà di controllare. È la versione moderna di un dirigismo che non osa più dichiararsi tale, che continua piuttosto a invadere le sfere della libertà individuale.

L’abitare è diventato un pretesto per un nuovo centralismo morale. Lo Stato e gli enti locali si atteggiano a mediatori del bene comune, nonostante non costruiscano nulla: non edificano, non ristrutturano, non rischiano. Impongono regole a chi produce e si appropriano della sua fatica in nome di una presunta equità. Eppure, senza chi investe e mette sul mercato i propri beni, non esisterebbe neppure la possibilità di affittare. Punire chi offre casa con un reticolato di vincoli e parametri significa tagliare la radice stessa della disponibilità abitativa.

Il canone concordato è, dunque, un’illusione linguistica. Non è un accordo, perché manca la libertà; non è concordato, perché nasce da un apparato sindacale pubblicizzato che decide per tutti. È la tipica invenzione di un Paese che diffida dell’autonomia e preferisce la regola all’iniziativa. Così, mentre i governi si alternano promettendo nuove politiche per la casa, ciò che resta costante è la sfiducia verso la proprietà privata e verso la capacità dei cittadini di autogestirsi.

La libertà contrattuale non è un rischio da contenere, è invece la condizione stessa della giustizia economica. L’unico modo per garantire affitti accessibili non è limitarli, è al contrario liberare l’offerta: semplificare la burocrazia, ridurre la pressione fiscale, rendere vantaggioso investire. Dove il mercato è libero, l’equilibrio si crea da sé; dove è controllato, si produce ingiustizia. È la differenza fra una società di cittadini e una di sudditi: nella prima, le regole nascono dai contratti; nella seconda, i contratti obbediscono alle regole.

In definitiva, Ravenna non è che un caso emblematico. Ogni volta che in qualsiasi sede, pubblica, privata o sindacale, si stabiliscono coefficienti, ogni volta che un regolamento di qualsiasi natura corregge la volontà delle parti, si ripete la stessa storia: la casa smette di essere un bene e diventa uno strumento politico. È il trionfo del formalismo sull’esperienza, del sospetto sulla fiducia, del potere sulla libertà. E finché continueremo a chiamare “concordato” ciò che è imposto, la proprietà resterà prigioniera del compromesso e la libertà, come sempre, pagherà l’affitto più alto.

* Pubblicato da Atlantico Quotidiano

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