Il coraggio di lasciare libere le imprese
di Sandro Scoppa
La vera “manovra poderosa” è togliere vincoli, non distribuire incentivi.
Quando un imprenditore chiede “interventi poderosi”, non invoca la libertà: chiede protezione. È il riflesso di un Paese in cui persino chi produce continua a guardare allo Stato come al motore della crescita. Ed è emblematico che, proprio in questa direzione, a Capri, nel convegno dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Emanuele Orsini — alla guida della medesima confederazione — abbia chiesto al governo una “visione industriale triennale” e nuove misure per rilanciare gli investimenti. Senonché, dietro siffatto appello, affiora evidente la contraddizione di sempre: si denuncia l’eccesso di burocrazia, e intanto si chiede più pianificazione; si teme la stagnazione, e si invoca l’intervento pubblico per uscirne. In realtà, l’Italia non cresce proprio perché non è libera di farlo. E non tornerà a crescere finché continuerà invece a chiedere allo Stato di intervenire là dove dovrebbe soltanto arretrare. Centocinquantatremila imprese giovanili scomparse o emigrate in dieci anni non sono un numero: sono il segno di un sistema che punisce chi osa, preferisce il mantenimento alla creazione, moltiplica vincoli e decreti come se la produttività potesse nascere da un modulo ministeriale. Il problema non è quindi la mancanza di un nuovo incentivo, è piuttosto la presenza di troppi poteri che si frappongono fra chi vuole intraprendere e chi dovrebbe semplicemente lasciarlo fare.
Nonostante ciò, Orsini ha ragione quando denuncia l’inefficienza di uno Stato che impiega tre anni per autorizzare un investimento, mentre altrove basta un clic. Nondimeno, la soluzione non può consistere in nuovi programmi o “piani di sviluppo”: il vero piano è il mercato. Non servono altri fondi, serve l’abolizione delle rendite burocratiche, dei monopoli pubblici e delle norme che trattano l’imprenditore come un suddito. L’intervento “poderoso” è quello che cancella, non quello che aggiunge.
Il presidente di Confindustria cita come modello le ZES, zone economiche speciali in cui la semplificazione ha favorito nuovi posti di lavoro. Ma non c’è bisogno di ritagli di libertà in un oceano di controlli: l’Italia intera dovrebbe essere una zona franca, non dal fisco bensì dal potere arbitrario. Dove la certezza del diritto non sia concessione, ma condizione naturale dell’agire economico. Lì dove la burocrazia “anestetizzata” ha prodotto sviluppo, il messaggio è chiarissimo: quando lo Stato arretra, la ricchezza avanza.
Sul fronte energetico, il leader confindustriale attende risposte dal governo. Eppure, se c’è un campo in cui il potere politico ha mostrato tutta la sua incapacità, è proprio questo. La “transizione ecologica” imposta per decreto, i vincoli europei, le tassazioni mirate e le oscillazioni regolatorie hanno reso l’energia un bene politico più che economico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: imprese soffocate dai costi, famiglie impoverite, dipendenza estera crescente. L’unica via per tornare competitivi è restituire al mercato la sovranità sulle scelte energetiche — non imporre mix o tecnologie, lasciare, al contrario, che la domanda e l’offerta decidano.
E lo stesso vale per l’intera economia: ciò che vale per l’energia vale a maggior ragione per ogni settore. Ogni volta che lo Stato pretende di orientare la produzione, soffoca la capacità di creare ricchezza. Infatti, quando ancora Orsini afferma che “la ricchezza non si crea con l’Irpef ma con il lavoro”, coglie un principio elementare di libertà economica: non si redistribuisce ciò che non si produce. Invero, se lo Stato continua a considerare ogni impresa una fonte da spremere e ogni investimento un sospetto, la crescita resterà una chimera. Il paradosso è che persino gli imprenditori si trovano a chiedere “aiuti” invece di reclamare la loro indipendenza. È la mentalità della dipendenza, eredità di decenni di statalismo travestito da politica industriale.
L’appello alla “responsabilità” lanciato contro gli scioperi è sensato, sebbene sia incompleto. La responsabilità vera è quella di rifiutare il patto implicito che lega produttori e governanti: io ti sostengo se tu mi sussidi. L’impresa non è un interlocutore dello Stato, è un’istituzione sociale autonoma che vive di scambio, non di favori. Il suo dovere non è “fare la sua parte” nella concertazione, è difendere la libertà che genera benessere per tutti.
Se il governo vuole davvero sostenere gli investimenti, dovrebbe iniziare abolendo ciò che li ostacola: norme, permessi, controlli, tasse sul capitale e sul lavoro. Ogni euro speso per “stimolare” l’economia è un euro tolto a chi la crea. Ogni incentivo selettivo è una distorsione che decide chi merita e chi no, sostituendo alla concorrenza il privilegio. L’economia libera non chiede sostegni, chiede che la si lasci respirare.
Dallo scanno più alto della Confindustria, Orsini invoca “automatismi” fiscali e “debito buono”. Non considera però che la libertà non è automatica e il debito non è mai buono se serve a finanziare ciò che il mercato rifiuta. Gli imprenditori non dovrebbero domandare strumenti, bensì riforme radicali: una giustizia civile rapida, un fisco semplice, un’amministrazione che risponda e poi si tolga di mezzo. È questo l’intervento poderosamente liberatore che manca da troppo tempo.
L’Italia è un Paese in cui si parla di “visione industriale” ogni volta che si smarrisce la visione della libertà. Non sarà una legge di bilancio a restituirla, ma una decisione politica: limitare sé stessa. Lo Stato che vuole generare sviluppo deve imparare l’arte del non fare, dell’astensione attiva, della rinuncia al controllo. Solo allora potremo dire di avere finalmente un governo forte: perché capace di lasciar liberi i cittadini di esserlo.
* Pubblicato su Atlantico Quotidiano
